AI e PMI in Italia
- Ambra PISCOPO
- 5 giorni fa
- Tempo di lettura: 3 min
Negli ultimi mesi ho avuto modo di lavorare su un report che indaga come le persone in azienda percepiscono e utilizzano l’Intelligenza Artificiale. Non si tratta di un’analisi tecnologica, né di una valutazione sugli strumenti in sé. È piuttosto una fotografia culturale, che racconta il modo in cui l’AI sta entrando nel lavoro quotidiano e, soprattutto, come viene interpretata dalle persone.
Il primo dato che colpisce è che l’Intelligenza Artificiale non è assente, ma nemmeno integrata. Una parte significativa delle persone non utilizza ancora strumenti di AI nel proprio lavoro e, tra chi li utilizza, l’uso è discontinuo, poco strutturato, spesso lasciato all’iniziativa individuale. Questo non segnala una resistenza diffusa, come spesso si tende a pensare, ma qualcosa di diverso: l’assenza di una cornice chiara che legittimi, orienti e accompagni l’uso dell’AI.
Le persone non stanno dicendo “non voglio usare l’AI”. Stanno dicendo, implicitamente, “non so bene quando, come e con quali criteri usarla”.
Quando si guarda al valore percepito, il quadro è coerente. L’AI viene riconosciuta come utile per velocizzare il lavoro e aumentare la produttività. Viene vista come un supporto operativo, capace di migliorare l’efficienza di alcune attività. Quello che non emerge, invece, è una connessione chiara tra AI e crescita professionale, riconoscimento, benessere o qualità dell’esperienza lavorativa. L’Intelligenza Artificiale è percepita come uno strumento che aiuta a fare meglio o più in fretta, non come una leva di sviluppo.
Questo è un passaggio cruciale dal punto di vista culturale. Quando una tecnologia resta confinata alla dimensione dell’efficienza, difficilmente viene sentita come parte del lavoro “vero”, quello che ha a che fare con l’identità professionale, la responsabilità, il contributo personale.
Il punto più delicato che emerge dal report riguarda però il contesto organizzativo. Le persone dichiarano di non sentirsi pienamente supportate nell’uso dell’AI. Mancano riferimenti chiari, spazi di confronto, indicazioni condivise. Il supporto del management viene percepito come debole o poco visibile, soprattutto da alcune popolazioni aziendali. Questo non significa necessariamente che il management sia contrario o disinteressato, ma che il messaggio non arriva in modo esplicito e coerente.
Quando l’AI entra in azienda senza una narrazione chiara, senza un senso condiviso e senza un accompagnamento intenzionale, le persone tendono a muoversi con cautela. Non per paura della tecnologia, ma per paura di sbagliare, di esporsi, di usare uno strumento in modo improprio. La prudenza che emerge dai dati non è irrazionale: è una risposta organizzativa a un vuoto di orientamento.
A questo si aggiunge una percezione del rischio molto presente. Le persone sono consapevoli dei limiti dell’AI, dei possibili errori, dei bias, delle distorsioni legate ai dati e alla qualità delle richieste formulate. Questa consapevolezza è un segnale positivo di maturità. Diventa però un freno quando non è accompagnata da competenze, confronto e responsabilizzazione. Senza questi elementi, il rischio percepito tende a paralizzare invece che a generare uso critico.
Un altro elemento interessante riguarda il modo in cui l’AI viene effettivamente utilizzata. L’uso più frequente riguarda l’apprendimento individuale, l’accesso a informazioni, il supporto cognitivo. Molto meno diffuso è l’uso dell’AI nei territori relazionali: comunicazione, collaborazione, sviluppo delle competenze interpersonali. È come se l’AI fosse ammessa nei processi mentali, ma non ancora nelle dinamiche umane del lavoro.
Questo dato non va letto come una mancanza, ma come un’indicazione. Ci dice che l’AI non diventa automaticamente una leva culturale. Lo diventa solo quando viene accompagnata dentro una visione del lavoro che riconosce il valore delle relazioni, della qualità delle decisioni, della responsabilità condivisa.
In fondo, il report pone una domanda che va oltre l’Intelligenza Artificiale. La domanda non è se useremo l’AI, né quanto velocemente la adotteremo. La domanda è che tipo di persone, di professionisti e di organizzazioni vogliamo diventare lavorando con l’AI.
Perché l’AI non sostituisce il pensiero, lo amplifica o lo impoverisce. Non riduce la responsabilità, la rende più necessaria. Non elimina il bisogno di leadership, lo rende più profondo. Senza un lavoro intenzionale sulla cultura, l’AI resta uno strumento potente ma isolato. Con il giusto accompagnamento, può diventare invece un’occasione per ripensare il modo in cui le persone apprendono, decidono e collaborano.
È qui che oggi si gioca la partita più interessante per le organizzazioni. Non nell’introduzione di nuovi strumenti, ma nella capacità di creare contesti in cui le persone possano usare l’Intelligenza Artificiale con competenza, senso critico e responsabilità. Ed è qui che l’AI smette di essere un tema tecnologico e diventa, finalmente, un tema di cultura organizzativa.






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